D repubblica intervista il Dott. Oliva
12 aprile 2016
Il potere delle calorie è finito. La formula “meno calorie assumi meglio è” non è più dominante. Dietologi e nutrizionisti, che per anni ci hanno sottoposto a regimi restrittivi da 1.200 (per le donne) o 1.800 calorie (per gli uomini), si stanno orientando verso un approccio diverso. Una caloria non è uguale all’altra. E aumentare di peso non dipende tanto dalla quantità di calorie assunte, quanto da dove queste provengono. Una cosa è mangiare 100 calorie di merendine, un’altra è assumere le stesse calorie da un piatto di zucchine. La proprietà commutativa, secondo cui mutando l’ordine degli addendi la somma non cambia, vale per la matematica ma non a tavola.
Prendiamo per esempio una dieta da 1.200 calorie. «Se assumo queste calorie da zucchero bianco, ingrasso. Se lo faccio con un’alimentazione equilibrata, no», spiega Rosa Lenoci, presidente dell’Associazione biologi nutrizionisti italiani (Abni). «Gli alimenti sono composti da molecole, non da calorie», dice Lenoci. Dipende da queste molecole se guadagniamo o perdiamo peso. «Zucchero e grassi, per esempio, portano a un aumento della glicemia, che è un fattore predisponente all’accrescimento di peso, anche in presenza di poche calorie». Se la glicemia sale si tende a ingrassare. Punto. «Dobbiamo quindi lavorare sulla qualità di quello che mangiamo: pochi grassi saturi, molte fibre e poco sale. Camminare con la calcolatrice in mano non serve». Meglio camminare e basta.
Le diete ipocaloriche, da seguire per un periodo di una, due, tre settimane, appartengono ormai al passato. «Oggi l’approccio è meno prescrittivo», conferma Luigi Oliva, dietologo esperto nella gestione dell’obesità. «Si è visto che il modello rigido basato sulle calorie è fallimentare. Le diete dimagranti, essendo a scadenza, preparano il terreno a un recupero del peso. Spesso finiscono per essere addirittura ingrassanti». Il motto “meno mangi meglio è” non vale più. «Si dimagrisce non perché si assumono meno calorie, ma perché si è più attivi e si mangia meglio».
L’invenzione della tanto temuta caloria si deve ad Antoine Lavoisier. Solo dopo la sua morte, però, si pensò di usarla anche per misurare la quantità di energia estratta dal cibo. Il primo a farlo, a fine 800, fu Wilbur Olin Atwater, chimico statunitense che misurò le calorie contenute in più di 4mila alimenti. I suoi standard sull’energia disponibile in ogni ettogrammo di cibo rappresentano ancora oggi un riferimento per i nutrizionisti di tutto il mondo. Da qui derivano insomma tutti i nostri problemi. «Basarsi sulle calorie per comporre le diete è stato l’errore iniziale», dice Rosa Lenoci. «La caloria non ha niente a che vedere con il nostro corpo: è un’unità di misura che indica la combustione degli alimenti nel calorimetro. Gli esseri umani però non sono calorimetri. Le nostre cellule non funzionano così, altrimenti bruceremmo». Tramite l’alimentazione l’organismo non produce calore ma energia chimica. «Prendiamo la paglia», spiega la presidente di Abni. «Se la bruciamo nel calorimetro produce calore, ma nel nostro corpo non ci dà energia». La stessa cosa vale per gli alcolici: producono calore, ma non saziano. Due bicchieri di whiskey hanno le stesse calorie di un piatto di pasta, ma un valore diverso per il funzionamento dell’organismo.
La conta delle calorie non è però del tutto inutile: «Può servire a dare un’idea globale dell’alimento», dice Lenoci. «Ma da sola non basta: bisogna accompagnare le informazioni sulle calorie con i valori nutrizionali dei cibi», perché a volte quelli più calorici fanno ingrassare meno. «La frutta secca, per esempio, ha più calorie dello zucchero, ma non determina lo stesso aumento di peso». Il burro ha meno calorie dell’olio d’oliva o di semi, ma contiene grassi saturi e fa ingrassare di più.
Anche l’altezza, il livello di grasso corporeo, lo stress e gli ormoni sono fattori che possono far variare la quantità di energia assorbita da un alimento. «Bisogna tenere conto delle esigenze nutrizionali del soggetto», spiega Luigi Oliva, «partendo dal metabolismo basale, cioè da quanta energia si consuma». Gli scienziati del Beltsville Human Nutrition Research Center, agenzia del dipartimento dell’Agricoltura americano, hanno scoperto che i nostri corpi a volte estraggono dagli alimenti quantità minori di energia di quella indicata sulle confezioni. Alcuni partecipanti agli studi, per esempio, hanno assorbito un terzo in meno delle calorie dalle mandorle rispetto ai valori scritti sull’etichetta nutrizionale: perché molto dipende dai microrganismi che popolano il nostro intestino. Nel 2013 alla Washington University hanno studiato il caso di due gemelli: uno obeso, l’altro magro. Gli scienziati hanno prelevato i microbi intestinali da ciascuno, impiantandoli nei topi. Risultato: a parità di calorie assunte, gli animali che avevano ricevuto i microbi dal gemello obeso avevano guadagnato peso, gli altri erano rimasti magri.
Anche il momento del giorno in cui si mangia influenza l’assunzione di calorie. Gli studiosi di Beltsville hanno notato che i topi nutriti con una dieta ricca di grassi tra le 9 e le 17 guadagnano il 28% in meno di peso rispetto ai topi nutriti con la stessa quantità di cibo nell’arco delle 24 ore. L’alimentazione irregolare, hanno spiegato, influenza negativamente il modo in cui il fegato metabolizza il cibo, alterando l’equilibrio energetico.
I valori energetici cambiano anche a seconda che i cibi siano cotti o crudi. Nei primi anni ’70 Richard Wrangham, antropologo di Harvard, si è nutrito come gli scimpanzé per un giorno intero: solo frutta, semi, foglie e insetti. Tutto crudo. Ma a fine giornata continuava ad avere fame. Molti anni dopo ha scoperto che i cibi cotti contengono più calorie di quelli crudi, perché la cottura rompe le strutture che racchiudono l’energia negli alimenti.
«La chiave per mantenersi in salute è una sola», conclude Oliva, «passare dai numeri ai buoni comportamenti alimentari».